In questi giorni, nelle cassette delle poste dei romani stanno arrivando i conguagli per il servizio fornito dall’Acea per il consumo dell’acqua, relativi al periodo 2018-2020. Un pensierino dell’azienda dopo 2 mesi di quarantena mondiale a causa del diffondersi del coronavirus, un regalino tariffario senza tener conto dell’emergenza sanitaria che si è trasformata, per milioni di persone, in una emergenza sociale ed economica. E ancora, una richiesta economica dell’azienda municipalizzata del tutto incomprensibile per i tempi e i modi in cui è stata diffusa. La cecità e la sordità del capitalismo municipale è palese: l’insoddisfazione crescente verso i conguagli in oggetto sta crescendo, ma sembra non interessare affatto la classe dirigente cittadina e locale.
Che cos’è Acea?
L’azienda pubblica fornitrice di acqua è, già da anni, impegnata in una missione privatistica e aziendalistica. Ma che cosa è Acea? Se non partiamo da questa domanda è difficile capire il suo comportamento verso il servizio offerto ai cittadini romani: già nel 2017 in più di una conferenza tra sindaci dell’ex provincia di Roma si dava un pesante giudizio negativo riguardo la gestione idrico-viaria realizzata da Acea nell’ultimo decennio. Una gestione che è all’origine dello stato attuale di degrado delle tubazioni e conseguente spreco dell’acqua, nonché del caro bolletta.
Acea viene definita uno “strano animale”: è una società per azioni quotata in borsa e la e la maggioranza è del Comune di Roma ma a decidere le strategie ci sono i soci privati, i francesi di Suez (23,3%) d’intesa con Francesco Gaetano Caltagirone (5%), così come riportato da Roberto Giovannini per la sua rubrica ambientale “tuttogreen” del quotidiano «La Stampa»:
«Tra le protagoniste di questo processo di «industrializzazione», o di «finanziarizzazione» dell’acqua ci sono certamente le cosiddette «quattro sorelle»: Acea, Hera, Iren e A2a. Quattro colossi, quotati in Borsa, che già oggi forniscono acqua a circa 15 milioni di italiani attraverso gli «Ato» che controllano (le 64 aree territoriali omogenee in cui è diviso il territorio nazionale). In Acea il socio di maggioranza è il Comune di Roma con il 51% delle azioni, seguito dalla multinazionale francese Suez con il 23,3% e dall’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone con il 5,006%). Acea è il più grande operatore italiano nel settore, con 8,5 milioni di abitanti serviti a Roma, Frosinone e altre aree di Lazio, Toscana, Umbria e Campania».
Tanti profitti, zero investimenti
Come società a maggioranza pubblica dovrebbe fare gli interessi del pubblici, a maggior ragione quando si tratta di fornire un servizio come l’acqua poiché non si tratta di proprietà pubblica o privata ma di inalienabile diritto alla vita per migliaia di persone.
Tanto più che i «clienti» sono cittadini che non possono scegliere di cambiare fornitore o partecipare, come a Napoli, al controllo e monitoraggio dei servizi: Acea, di fatto, si comporta come un’azienda privata e, dunque, la sua missione è massimizzare i
profitti e dare dividendi ai soci, sfruttando la posizione di monopolio di cui gode, violando palesemente il risultato e la volontà popolare del referendum sull’acqua del 2011.
Tutto ciò significa che in questi anni si è speso pochissimo per migliorare il servizio e mettere in atto investimenti che migliorassero la situazione delle condutture idriche e sistemasse disservizi già noti. Acea Ato 2 è la società operativa del Gruppo Acea che gestisce il servizio idrico integrato nell’Ambito Territoriale Ottimale (Ato, per l’appunto) del Lazio centrale, comprensivo di Roma e altri 111 comuni della regione. Acea che gestisce il servizio idrico integrato nell’Ambito territoriale ottimale 2 (ATO 2) – Lazio centrale (Roma e altri 111 Comuni del Lazio). L’ATO2, con un’estensione territoriale superiore a 5.000 chilometri quadrati e a circa 3.600.000 abitanti, è il più grande in Italia. Acea ATO2 è Gestore del servizio idrico integrato dal 26 novembre del 2002. La quota di partecipazione di Acea SpA è pari al 96.46% e «secondo i dati Mediobanca, nel 2016 Acea Holding ha registrato un risultato netto positivo di ben 643 milioni. Di questi guadagni, 90 milioni sono venuti dall’attività di Acea Ato2». Nella fase post cornavirus dovremmo discutere di come usare gli utili di Acea per il bene comune e non al fine di pensare ai lauti dividendi dei suoi azionisti privati, nel 2017, quando la crisi idrica del razionamento dell’acqua era alle porte e il prelievo del Lago di Bracciano fu il casus belli di conflitto fra Comune e Regione, la rivista «Wired» riportava: «Una multiutility [Acea] che stacca dividendi milionari ai suoi soci – su tutti il Comune e Gdf-Suez dopo lo scambio di azioni dello scorso autunno col gruppo Caltagirone – ma che negli anni ha reinvestito pochissimo nella sua rete» tant’è vero che «la dispersione di acqua nelle tubature di Acea Ato2 era di appena il 25% nel 2007 ed è poi salita al 35% sei anni dopo per toccare appunto il 45%».
Socializzazione delle perdite, anche di quelle idriche
Invece del bene comune e del diritto alla vita si parla di conguagli dell’epoca dei Bronzi di Riace, della loro faccia tosta nel chiedere arretrati retroattivi (!) di 20 mesi, quando piuttosto si dovrebbe perder tempo a discutere di come ripartire a seguito della pandemia.
Davrà nascere, e sarebbe il caso di incoraggiarlo, un movimento popolare che dica: prima la manutenzione, prima la lotta allo spreco dell’acqua dei profitti; gli utili vengano investiti per creare lavoro e non volino d’incanto nelle tasche dei manager.
Sulla questione conguagli ci facciamo portavoci dell’istanza del congelamento ma, soprattutto, è bene che le forze politiche tutte per una volta si assumano la responsabilità di chiederlo. L’acqua, come già detto, non è un diritto ma un bene inalienabile per la vita e lo sviluppo dell’umanità e va garantito l’accesso a tutte e tutti: chi non è d’accordo, pensando che è bene si pensi primariamente agli utili dell’azienda, è bene che lo dica.
Tanto più che i «clienti» sono cittadini che non possono scegliere di cambiare fornitore o partecipare come a napoli al controllo e monitoraggio dei servizi. Ma si comporta come un’azienda privata, e dunque la sua missione è massimizzare i profitti e dare dividendi ai soci, sfruttando la posizione di monopolio di cui gode, (violando palesemente il risultato e la volontà popolare del referendum sull’acqua del 2011) Il che significa che in questi anni si è speso pochissimo per migliorare il servizio e fare investimenti. Veri, non fittizi.
Anche perché gli investimenti per migliorare e adeguare la rete idrica «sono stati per molti anni poco più che simbolici», riprendiamo sempre dall’articolo di Roberto Giovannini de «La Stampa». Lo dicono i fatti:
«il 60% dei 5.400 chilometri di tubi di cui è composta la rete della Capitale è stato posato più di 30 anni fa, il 25% del totale ha addirittura più di 50 anni di vita. Questo ha comportato un livello eccezionale di perdite: su 100 litri di acqua captata con gli acquedotti del Peschiera e del Capore, dall’Acqua Marcia e altre sorgenti come il lago di Bracciano, ben 44,5 venivano perdute per strada. In parte per perdite fisiologiche, in parte per abusivismo; ma il grosso di questa immensa massa di acqua finisce letteralmente nel nulla. Il grosso degli investimenti effettuati da Acea, circa 500 milioni nel corso di diversi anni, hanno invece riguardato il settore delle fognature e della depurazione. Investimenti «obbligati», per evitare sanzioni comunitarie».
Se Acea si pre-occupa delle proprie tasche guardando ad investimenti oltre confine per aumentare i propri profitti, a Roma dovranno pensarci i cittadini pagando le loro bollette arretrate dell’epoca dell’Impero Romano?
Roberto Catracchia
Marco Piccinelli
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