Il 26 maggio [2020] un poliziotto statunitense di Minneapolis ha ucciso un afroamericano di 46 anni, Georde Floyd, mentre lo stava immobilizzando. Floyd è stato fermato dalla polizia, dal pubblico ufficiale “bianco” Derek Chauvin, che gli ha premuto il ginocchio sul collo per diversi minuti provocando nell’arrestato un’insufficienza respiratoria che ne ha causato la morte. Di seguito il video del portale newyorkese d’informazione «Now this», rilanciato da migliaia di utenti su Twitter e altre piattaforme sociali, avvertiamo il lettore o la lettrice che si tratta di immagini piuttosto forti.
La polizia di Minneapolis ha affermato nel rapporto, a seguito del caso mediatico, politico e sociale, che Floyd avrebbe reagito all’arresto, tuttavia dei video di telecamere di sorveglianza della zona dimostrano tutt’altro come pure la stampa americana sta dimostrando.
Black lives matter
«I can’t breathe», «Non riesco a respirare», queste sono state le parole di Floyd mentre il poliziotto lo immobilizzava premendo con il ginocchio sul collo, le stesse parole di Micheal Brown ed Eric Garner, entrambi uccisi soffocati dalla polizia di Ferguson e New York tra il 2013 e il 2014. Fu proprio Eric Garner a pronunciare la frase “Non riesco a respirare” mentre veniva arrestato e immobilizzato dalla polizia: la sua richiesta disperata, prima di spirare, divenne lo slogan del movimento “Black Lives Matter” nato in quella circostanza e a cui perfino la Nba, la massima serie del basket americano, aveva dato il proprio ideale appoggio: numerosi giocatori scesero in campo con una maglietta che riportava la scritta «I can’t breathe». I quattro agenti coinvolti nell’omcidio Floyd sono stati sospesi dal lavoro ma la protesta è dilagata in tutti gli stati americani a partire dal 26 maggio stesso: quel giorno, infatti, si sono verificate proteste e disordini a Minneapolis.
Oscar Grant, Mike Brown, Tamir Rice, Eric Garner, Freddie Gray, Sandra Bland, Philando Castile, Marcus David Peters, Breonna Taylor, la lista potrebbe continuare: ogni città americana ne possiede una ed è quella dei neri uccisi per la stessa motivazione di George Floyd. Ogni città americana ne ha una, dicevamo, eppure la storia si ripete, continua a succedere: un poliziotto bianco uccide un cittadino nero. E no, non siamo nell’america razzista degli anni ’50, quella che processava e uccideva comunisti o sospettati di essere tali perché antiamericani; quella che divideva gli autobus a metà tra bianchi e neri. Siamo nell’America del 2020 eppure la sceneggiatura si ripete immutata, traumatizzando comunità, famiglie, persone, com’è accaduto negli anni scorsi a Ferguson, Baltimora, Charlotte e in altre località statunitensi.
Le proteste
Mercoledì notte, le proteste si sono intensificate a Minneapolis: il governatore Tim Waltz ha fatto intervenire la Guardia Nazionale dello Stato (il Minnesota) per rispondere alle violenze che stavano dilagando da entrambe le parti: i manifestanti assaltavano e bruciavano negozi e ristoranti facenti parte di catene internazionali di commercio, mentre la polizia disperdeva la folla utilizzando potenti gas lacrimogeni. Il sindaco di Minneapolis Jacob Frey ha dichiarato lo stato di emergenza: la Guardia Nazionale dello Stato non interveniva in situazioni di protesta locale da circa 34 anni.
Morning after the protests and riots in Minneapolis of the police killing George Floyd. It’s eerie pic.twitter.com/UVF2ltmL7E
— Max Nesterak (@maxnesterak) May 28, 2020
Nella giornata di giovedì, racconta lo «Star Tribune», il sole «sorgeva in una idilliaca giornata di fine maggio» ma «gli edifici erano ancora fumanti dagli incendi appicati durante le violente proteste della notte precedente: all’incrocio E. Lake Street e Minnehaha Avenue – di fronte al terzo quartier generale del dipartimento di polizia di Minneapolis, epicentro delle proteste – un ristorante [della catena] Wendy era sparito». Così come altri locali commerciali e non: «sembrava più una zona di guerra» che una di quelle commerciali piene di negozi, viene raccontato dal quotidiano.
Così come per Eric Garner scese in campo la Nba, in questo caso Tyrone Carter giocatore dei Minnesota Viking (football americano), ha preso parte alle proteste che stanno avvenendo da giorni nella città. Per i manifestanti di Minneapolis, sia giovani che anziani, è giusto scendere in piazza: «Sessant’anni fa, Martin Luther King stava lottando per la stessa cosa, ma non è cambiato molto da allora».
La famiglia di George Floyd, tuttavia, parlando in più di un’occasione ha affermato come «George non avrebbe voluto ulteriore distruzione dopo quel che gli è capitato». Come a dire: non trascendiamo in violenze e saccheggi. Ifrah, giovane donna che vive a poca distanza da dove George Floyd è stato ucciso, ha raccontato a «Liberation News»: «Non si tratta “solo” del corpo di George ma dell’intera classe lavoratrice: ci sono migliaia e migliaia di donne e uomini che non hanno registrazioni video di loro che vengono uccisi e che provano la loro innocenza generando proteste e reazioni da parte della cittadinanza. Nel capitalismo si può solo scegliere tra la morte e a morte». «Nell’America razzista gli omicidi legati alla polizia di neri disarmati sono tragicamente una routine. Uno studio di tali omicidi, pubblicato diversi anni fa al culmine del movimento Black Lives Matter, dimostra che gli omicidi di poliziotti ai danni di neri disarmati accadono in media uno al giorno», è l’accusa di Jeff Mackler di Socialist Action.
La protesta monta in tutto il Paese, andando oltre il Minnesota, spesso non con carattere di violenza e guerriglia urbana, ma il sentimento popolare è quello della condanna dei quattro agenti di Minneapolis e la riaffrmazione dell’uguaglianza e dell’equità. Cose che l’america ai tempi di Trump reputa irreali e sconvenienti.
Dalla Casa Bianca, nonostante la dichiarazione ufficiale rilasciata alla stampa, un caustico «faremo giustizia», serpeggia un evidente imbarazzo e timore che la protesta possa indebolire il consenso dei repubblicani in vista del voto presidenziale. Già, perché Donald Trump non pare voler rimandare alcuna tornata elettorale, come pure è avvenuto nel nostro Paese. Minneapolis si è “incendiata”, provebialmente e metaforicamente, e questo non gioverà alla campagna elettorale razzista di Donald Trump, atteggiamento e predisposizione d’animo a cui il milionario presidente Usa ha abituato mezzo mondo.
Ma perché si sta protestando assaltando catene di ristoranti come Wendy, McDonald’s o negozi internazionali di autoricambi come Autozone?
La motivazione è inscritta nella situazione che sta alla base della pandemia e conseguente disoccupazione, disperazione, abbandono sociale da parte delle istituzioni: più di 100.000 persone sono state uccise dal coronavirus negli Usa e mentre gli americani sono costretti a tornare a lavoro, i salari si stanno abbassando ma il costo della vita rimane sempre lo stesso. Lo sciopero dell’affitto ha rappresentato una protesta che ha attraversato tutta l’America ma è stata quasi una goccia nell’oceano: le persone iniziano a vedere la disperazione di un sistema produttivo che è completamente saltato e che ha mostrato, senza remore, la propria natura violenta e irrazionale. L’altra faccia della medaglia, però, racconta di milionari che hanno aumentato considerevolmente i propri profitti: i media statunitensi hanno classificato Jeff Bezos, capo di Amazon, come trilionario, dopo che la pandemia ha fatto schizzare verso l’alto i propri guadagni. Secondo Chuck Collins, redattore del rapporto pubblicato da “Inequality”: «Dal 18 marzo [2020], 38,5 milioni di persone hanno presentato domanda di disoccupazione negli Usa. Negli stessi due mesi la ricchezza miliardaria è aumentata – 434 miliardi di dollari in quel breve periodo. La classe miliardaria negli Stati Uniti, nel complesso, sta vedendo la loro ricchezza impennarsi negli ultimi due mesi. Per dare un’idea di quel che sto dicendo: la ricchezza combinata di Jeff Bezos e Mark Zuckerberg è aumentata di 60 miliardi dal 18 marzo». Per questo i manifestanti affermano ai media che «non ci deve essere alcuno scandalo se ristoranti di Wendy o McDonald’s vengono dati alle fiamme: loro sono parte del problema». Pochissime persone, una sempre più ristretta cerchia, possiedono la ricchezza di un paese vasto come gli Usa e, come vediamo, del mondo intero, dominando commerci e comunicazioni con le loro piattaforme, inducendoci all’acquisto e giocando con gli algoritmi per abbandonarci alla compulsività del click su questo o quel prodotto.
La protesta, intanto, non si ferma. Continueremo a monitorarla dal nostro piccolo punto di osservazione e fornendo informazione alle lettrici e ai lettori su quel che accade nei nostri quartieri ma anche dall’altra parte del mondo per agire localmente e pensare globalmente, guardando e comprendendo quel che accade oltreoceano.
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