Il lockdown ha chiuso attività, distanziato persone e relazioni, interrotto canali comunicativi in presenza favorendo quelli digitali. La Scuola popolare di Tor bella monaca, però, non vedeva l’ora di riaprire i battenti, andando contro al detto popolare che li vorrebbe chiusi per sempre.
Venerdì 19, infatti, è stato il primo giorno di riapertura in presenza per il progetto che si riunisce a Largo Mengaroni, da poco costituitosi in associazione di promozione sociale. Ne abbiamo parlato con Andrea Pietrangeli, insegnante di italiano alle comunità straniere.
Com’è nato il progetto della scuola popolare e in che contesto?
Il progetto nasce ormai un anno e mezzo fa, ci appoggiamo al CHEntro di Largo Mengaroni. Il fine della Scuola popolare è quello del mutualismo.
Spiegaci meglio che cosa intendi con questo termine.
La pratica mutualistica si traduce in cooperazione sociale di tipo “do ut des”: mettersi a disposizione nel ricevere un servizio, un aiuto per poi cercare di restituirlo nelle proprie possibilità.
Come avviene questo “scambio”?
La nostra intenzione è quello di poter dare attenzione e aiuto a bambine e bambini, ragazze e ragazzi, uomini e donne senza discriminazione alcuna dal punto di vista etnico, sessuale, religioso, nello studio dopo la scuola.
Presso di noi arrivano bambine e bambini delle elementari, della scuola secondaria di primo grado e anche di secondo grado (il liceo): riusciamo ad intercettare una parte di quel consistente disagio sociale che è presente nel VI Municipio. Le ripetizioni, spesso, non sono accessibili a tutti: la pratica mutualistica serve a questo, andando a connettere da un lato professori, docenti, ragazzi universitari nonché ricercatori che supportano e seguono il ragazzo o la ragazza con l’obiettivo che lui o lei riesca ad aiutare altri in un’altra materia in cui si sente particolarmente ferrato.
In termini di partecipazione, come sta andando?
Si sono avvicinati tanti ragazzi e anche tanti bambini: siamo riusciti ad intercettare studenti dell’Amaldi ma anche del Kant. Tieni presente che il venerdì, quando la giornata è dedicata ai bambini delle elementari e delle medie, i numeri sono molto alti.
Parlando di disagio da intercettare, il VI Municipio e Tor bella monaca in particolare vi dà molto da fare…
C’è da dire che i ragazzi sono di estrazione sociale varia: quando si pensa a Tor bella monaca lo si fa con stereotipi e pregiudizi, così come quando si rivolge l’animo al VI Municipio nella sua interezza. Sia Tor bella monaca che il VI municipio vanno a costituire, agli occhi e alle orecchie delle persone, un immaginario “labile” e dai contorni poco definiti: “ghetto” è il termine che subito ci viene in mente di accostare ai quartieri che compongono questo quadrante della Capitale.
Non è sempre così: da un lato ci sono ragazzi e famiglie che vivono un disagio e un’esclusione sociale molto forte e che devono necessariamente aggrapparsi all’iniziativa della nostra associazione; dall’altro sono presenti anche nuclei familiari più agiati e che potremmo definire “ordinarie”. C’è una risposta buona in generale ed è positivo.
La scuola popolare per il momento, dunque, ha “due gambe” su cui si poggia: scuola di italiano a comunità straniere e supporto a bambini e ragazzi.
Sì, anche se c’è da dire che abbiamo messo in atto anche altre iniziative: ci siamo strutturati come associazione “Scuola popolare Tor bella monaca” proprio poco tempo fa e questo ci ha permesso di organizzare altri sportelli, incontri, laboratori. Ad esempio, durante il lockdown abbiamo promosso degli sportelli di educazione sentimentale insieme a psicologi che si sono sentiti parte del progetto, anche se non sono direttamente coinvolti nell’associazione – ovviamente.
Proprio il laboratorio sull’educazione sentimentale sta facendo “crescere” – in un certo qual modo – la scuola popolare: i primi incontri si sono tenuti su “Zoom” e sta avendo una buona partecipazione.
Scuola d’italiano agli stranieri: quali comunità sono state più ricettive?
La comunità marocchina ha risposto con diversi studenti, tanto lavoratori quanto madri di famiglia; abbiamo due ragazze dell’Iran che frequentano l’Università di Tor Vergata e che arrivano con una gran conoscenza dell’inglese ma con un italiano che vogliono capire per poter vivere davvero la nostra cultura; c’è poi una piccola comunità della Guinea. Proprio la famiglia guineana ha una storia che mi sta particolarmente a cuore: vivono a Finocchio in condizioni di povertà consistenti, la madre del nucleo familiare è totalmente analfabeta e non parla nient’altro se non la sua lingua. È significativo come gli studenti stranieri del corso di italiano cerchino sempre di restituirci qualcosa della loro cultura e delle loro esperienze personali. È uno scambio che ti arricchisce molto e fortemente: l’interscambio che si crea, in fondo, è anche questo: dare reciprocamente in cambio ciò possediamo, tanto loro quanto noi.
Così si entra in contatto con un doppio disagio: come fai a muoverti in casi come questi?
Ci si ascolta. L’ascolto è reciproco: non c’è mai una lezione “frontale” e scolastica. Spesso dobbiamo instaurare un rapporto che deve andare necessariamente oltre la scolarizzazione diventando di fiducia e interscambio fra te e lo studente, o la studentessa.
Ascolto significa tendere l’orecchio alla loro storia, a quel che li ha portati a Largo Mengaroni così come ai loro bisogni: la nostra è una scuola che agisce anche su quello. Da parte loro c’è un grande interesse di capire e imparare l’italiano di cui necessitano nella vita di tutti i giorni per le pratiche al municipio, per la spesa, al lavoro: entrare in contatto con queste necessità e con il loro timore di non sapersi esprimere e spiegare quello che loro vorrebbero dirti, anche questo è ascolto e reciprocità.
Marco Piccinelli
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