Quel che state per leggere è il primo di una breve serie di articoli che pubblicheremo a puntate su «La Rinascita» per ricercare e sollecitare riflessioni, così come fornire da spunto, al fine di comprendere come si è trasformata nel tempo la città di Roma e i suoi quartieri.
Iniziamo da alcune semplici osservazioni e di immediato impatto: ogni volta che si esce da casa e ci si incammina in direzione delle proprie faccende personali o lavorative, si nota che il proprio quartiere prima era il luogo in cui ci si conosceva più o meno tutti e adesso invece non ci si saluta con nessuno. Cos’è successo? Come mai sta scomparendo la “città europea”, in senso lato, dove cittadini di diverse nazioni si incontravano negli spazi pubblichi?
Come mai la nostra capitale si è “ribaltata negli ultimi trent’anni” e da troppo tempo vive una immensa condizione periferica e marginalità, nell’era dello sviluppo delle città globali e delle nuove megalopoli mondiali?
“Pensare globale e agire locale” dovrebbe essere il presupposto per reagire alla decadenza di una città unica al mondo, così come cerchiamo di fare nel nostro piccolo con questo giornale digitale, dando voce alle diseguaglianze nel casilino così come a quelle del Nord Dakota; pubblicando le problematiche del “versante prenestino” tenendo insieme la criticità di Vladivostok. L’unicità di Roma, cui prima si evocava, è sotto attacco e ovviamente non garantita in eterno.
Vogliamo tentare di andare oltre la risposta facile e scontata per scavare sotto le fondamenta di una città: non basta solo dire che esiste solo la corruzione nella Capitale, non bisogna solo limitarsi alla critica della classe dirigente incompetente. Non basta più. Bisogna andare più in profondità. Senza domande di senso non si può comprendere perché il proprio quartiere sia così cambiato, le strade che si percorre quotidianamente sono in così gravi condizioni di degrado, i luoghi che si frequenta bsono sempre più difficili da vivere per costruire relazioni e comunità.
Nel 2000, venti anni fa, il prof. Pietro Barcellona scriveva: «Il potere sovrano nella modernità è diventato il potere di escludere o di includere. Il chi decide su ciò che è umano e ciò che non lo è, si sottrae paradossalmente ad ogni controllo: È puro potere. I diritti senza potere/politica si rovesciano in un potere/politica senza regole. Il potere di lasciare fuori dalla fortezza assediata è oggi sottratto ad ogni controllo democratico e ad ogni partecipazione dei popoli alle decisioni che toccano il loro destino». (Quale politica per il terzo millennio, Edizioni dedalo, p. 154-155).
Weber aggiungeva: «La città si costruisce contro il potere imperiale, contro gli ordinamenti sovranazionali, si costituisce nella storia come potere illeggitimo. Si costituisce come corpo vivo, come assemblea che si autodefinisce e si garantisce nella reciprocità dei diritti e dei doveri. I diritti dei cittadini sono i diritti fondati sull’assemblea. Sono diritti della comunità che si riunisce, che ha stretto un patto di libertà con la “guarnigione” (l’esercito) e rivendica la propria autonomia: il diritto ad essere governati dai propri simili…inclusi i nuovi simili oltre la razza, provenienza e religione».
Se si vuole parlare di nuova cittadinanza bisogna riaffrontare il problema dei poteri originari della città, intendendola, però, come “città di cittadini”, sempre citando il prof. Barcellona.
All’affermazione, aggiungiamo: la nuova cittadinanza impone scelte di campo e richiede nuove forme di autogoverno di chi la abita e che popolano un territorio. L’esatto opposto di quello che chiedono i fautori dell’autonomia differenziata. Costoro chiedono feudi e baronati, chiedono servi e vassalli. Costoro sono la degenerazione della globalizzazione pongono ancora più forte l’accentramento ad personam dei poteri locali che hanno dissolto lo spazio pubblico e che fungeva da centro di riferimento e partecipazione dei cittadini.
Tanto per capirci: la città è sempre più in mano a pianificatori funzionali che devono risolvere il problema immediato – ad esempio – dei rifiuti. Non vedono il rifiuto come un’idea- risorsa, sono privi dell’idea della città come spazio condiviso, dove si creano insieme soluzioni condivise ai problemi così come si creano i significati, quelli che danno senso alla vita urbana. Si continua ad espropriare la capacità umana del dare significati al mondo urbano circostante, mentre una visione di futuro richiede la capacità di operare scelte, individuare obiettivi e finalità attraverso un cammino aggregante delle risorse popolari della città.
Per chi scrive, la scelta di campo è partire dalle periferie e non invadere le periferie; riconoscere e favorire partecipazione e sovranità dei lavoratori e dei cittadini senza potere. Non si può continuare a dare pacche sulle spalle alle periferie e andare a cena con le due rive del Tevere: tra la spiaggia del potere religioso e le sponde dei poteri bancari-immobiliari, nonché finanziari, delle élites locali e transnazionali.
La recente cronaca romana ci dice che questo è stato il limite e la tragedia di tutti i governi cittadini degli ultimi decenni.
Così non sarà in eterno
Roberto Catracchia
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