Da un decennio il settore dei servizi ha assunto un ruolo e un peso maggiore nell’economia cittadina: stiamo parlando del settore comunemente chiamato terziario finalizzato alla produzione dei servizi semplici. Con esso avanza in modo veloce il terziario avanzato, cioè quello caratterizzato da un elevato contenuto di innovazione tecnologica e informatica: tempo si parla di “industria 4.0”, di robotica e via discorrendo. Dopo un lustro possiamo dire che i processi in corso restringono il mercato del lavoro metropolitano e riducono i posti di lavoro nella produzione di beni finiti, mentre crescono in maniera altrettanto ridotta i posti di lavoro nei servizi.
Per citare “La città perduta” di Petrillo, un libro pubblicato nel 2000, dunque venti anni fa:
La struttura occupazionale della metropoli a venire si prospetta come completamente diversa da quella del passato e ben poco di buono fa sperare il dilagare delle attività scarsamente e malamente retribuite. Sembra questa tendenza una componente fondamentale del presente e del futuro lavorativo, attraverso una polarizzazione della popolazione tra elites legate alle professioni di impresa e dall’altro ad un sottoproletariato diffuso e di massa schiavizzato dal lavoro informale. Sono le due facce di una medesima realtà sociale e produttiva. Da una parte i posti di lavoro di alto livello [sono quelli che urlano che la domenica si deve sempre lavorare, così lo schiavetto gli porta il cibo in casa!] sono quadri inseriti nei settori immobiliari, finanziari, ed assicurativi. Dall’altro i lavoratori non protetti dei call centers, dei settori alberghiero-turistico, della logistica, dell’alimentare, dei servizi alla persona, dell’edilizia in nero. In questo contesto diviene centrale l’idea che i processi economici non sono più legati al welfare, alla crescita e alla occupazioni e producono solo alti costi sociali ed ecologici. Siamo ad un passo dalla disintegrazione delle società urbane. Si crea così una doppia frattura tra lavoro qualificato e lavoro qualunque. Parliamo di tendenze operanti da anni e alla veloce crescita economica, non corrisponde una crescita occupazionale adeguata. Nessuno parla più dell’obiettivo della piena occupazione. Di conseguenza, l’espulsione dal mondo del lavoro delle fasce deboli, precarie e immigrate e la ricetta da attuare in ogni fase di recessione economica. Lasciare il disegno della città e della sua struttura al libero mercato porta con sé queste fratture violente nella metropoli del ventunesimo secolo.
Spesso ripetiamo uno slogan: così è stato, così è, così non sarà in eterno. Si tratta di un modesto ma irrinunciabile tentativo di svegliare e destare le coscienze e le aspirazioni di tutti. Da romani e abitanti della periferia, ci sentiamo in diritto di dover reagire di fronte all’andazzo generale e dominante del tutto. Da borgatari che hanno vissuto la stagione di riscatto dell’era Petroselli e del suo “sogno interrotto”, sentiamo che quel testamento aggiornato ai tempi odierni deve essere riscoperto. Per pensare e agire nei nostri giorni, per vedere e non solo registrare la decadenza di una città e della sua periferia: per svelare l’infinità dei bisogni lavorativi non promossi dalla pubblica amministrazione, per rompere le catene della sudditanza al “libero mercato” e sue declinazioni.
Roberto Catracchia
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