Nel mese di ottobre abbiamo pubblicato diversi articoli sulla città e abbiamo iniziato non a caso parlando della Roma di Petroselli e del suo protagonismo popolare, nonché del suo progetto interrotto. Abbiamo parlato della “città smarrita” che vede le nuove classi dirigenti agire e negare la necessita di fare scelte di campo tra lavoratori ed élites urbane; abbiamo trattato della “città che rende liberi o schiavi” in cui trattavamo l’argomento della metropoli escludente che è, oggettivamente, triste e cupa in sé. Infine, l’articolo sul “lavoro smarrito” e sulla conseguente divisione e “balcanizzazione” tra quello ricco e quello povero con tutti i riflessi nefasti sulla democrazia urbana e il futuro delle nuove generazioni.
Con quest’ultimo testo, approfondiamo il rapporto fra la città e le macchine intelligenti: da tempo si sente parlare di “industria 4.0” e di “robotica”: alcune scuole superiori posseggono già delle sezioni di robotica oppure promuovono moduli o specializzazioni sul tema.
Lo spunto è arrivato dalla lettura del ponderoso volume denominato Il capitalismo della sorveglianza, pubblicato da LuissEdizioni e scritto da Shoshana Zuboff. Al di là del marketing dominante, della retorica sulla città smart, in realtà l’informatizzazione liberista accentua la divisione tra lavoro e capitale, sbarca sul pianeta della conoscenza, e determina una lotta più grande per la divisione o accumulazione dei poteri della conoscenza. Utilizziamo tutti i giorni dispositivi smart: vogliamo la nostra casa sempre più intelligente, compriamo elettrodomestici domotizzati oppure cerchiamo di collegare la nostra auto allo smartphone per ascoltare la musica o inserire la meta della nostra destinazione.
Tutto è gratuito.
Ma le grandi aziende transnazionali che offrono questi servizi non fanno pagare nulla perché il prodotto, in realtà, siamo noi che utilizziamo quelle tecnologie. Là dove non c’è costo, il prodotto siamo noi e le nostre abitudini. Trent’anni fa sarebbe stato impossibile chiedere ad una persona di essere volontariamente tracciato giorno e notte utilizzando come contropartita il sollazzo con applicazioni di condivisione di video o di fotografie. Eppure, ad oggi, è la quotidiana normalità ed è considerato strano chi non accetta la contropartita.
Conoscenza-autorità-potere demoliscono giorno dopo giorno i luoghi classici del lavoro come la fabbrica o l’ufficio e incombono sulla nostra vita quotidiana. Percorsi, processi, merci vengono rimodulati dall’informazione e la concentrazione del sapere in pochi mani, così come delle sue tecniche attuative, determinano l’ordinamento della società attuale. Il digitale e i suoi algoritmi hanno trasformato i luoghi del lavoro: questo è un dato di fatto incontrovertibile. Tutti i giorni siamo più esposti all’acquisto di beni o merci che non sapevamo neanche di volere grazie al fatto che applicazioni e algoritmi ben strutturati studiano i nostri desideri sulla base dell’acquisto avvenuto in un singolo caso per proporci tutti altri prodotti che potrebbero interessarci. Il consumatore non è più utente bensì consumatore elevato al quadrato e anche prodotto del suo stesso consumo.
La preoccupazione di ogni lavoratore in passato era apprendere ed eseguire bene un determinato lavoro. Il suo operare si riferiva alle mansioni associate a materie prime o servizi mentre ora ha a che fare con il monitoraggio dei dati seguendo degli schemi per saper comprendere il testo elettronico. Passiamo dalla divisione della fatica classica all’essere e subire una divisione dell’apprendimento.
Qui sorgono davanti a noi problemi nuovi. Investiamo sulle macchine o anche sulle persone? La maggior parte delle aziende sceglie macchine intelligenti anziché le braccia o intelligenze di esseri umani. O, se vogliamo vederla in questo modo: intelligenza artificiale contro quella umana.
Un dato confermato da analisi e ricerche sociali, spesso censurate dalla stampa mainstream o mai citate pienamente, ci dice che da almeno venti anni la maggior parte dei lavoratori vien tagliata fuori da opportunità dignitose di apprendimento e lavoro: si afferma una polarizzazione del lavoro tra attività ad alta competenza e bassa competenza. Lo scontro è servito. I cantori della rivoluzione digitale continueranno a dire che questo sviluppo è inevitabile e necessario, in realtà esso riflette solo i rapporti di forza fin ora affermatesi con l’ideologia neoliberista a cui il capitalismo statalista non ha voluto porre un freno.
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I padroni della intelligenza artificiale rimangono gli unici soggetti per le masse di dare risposta all’umanità? Le cose sembrano non essere così anche alla luce dell’esplosione del coronavirus nel momento più basso e bistrattato della sanità pubblica nel mondo, così come di altri servizi essenziali di cui le società mondiali hanno maledettamente bisogno. Di fronte a queste curvature improvvise della storia, i buchi neri del capitalismo emergono tutti e con brutalità quasi epilettica. Con serenità, a duecentodue anni dalla nascita del vecchietto nato a Treviri (cioè Karl Marx), possiamo ribadire che il problema non sta nel robot ma nell’uso capitalistico del mezzo: i mass-media, dall’altra parte, fanno dipendere la disoccupazione di massa, il lavoro povero, sfruttato dall’uso della tecnologia e non dall’uso capitalistico della tecnologia e della scienza. Occultano sapientemente realtà e condizione sociale di milioni di persone. Le élites capitalistiche internazionali, attraverso la “rivoluzione digitale” hanno accentuato il gap democratico tra “chi sa”, e distribuisce conoscenza, tra chi è incluso ed escluso dall’opportunità di imparare. Il divario di disuguaglianza si allarga sul terreno, tra “chi decide” e chi subisce le decisioni. Quali istituzioni decidono e con chi? E dove è la loro fonte che legittima la loro autorità, “chi decide-chi decide?” diviene l’interrogativo che riguarda il potere e riporta all’origine del potere che determina l’autorità di condividere o negare la conoscenza del 21° secolo.
Questo contesto e questo domìnio dei pochi sulle vite degli esseri umani si realizza attraverso una divisione del lavoro e del sapere senza precedenti nella storia umana.
Questo modello rende apparentemente impossibile il conflitto stesso negando il diritto di combattere agli individui e alle rivendicazioni, alle lotte, collettive. Serve uno scatto di reni: il diritto a contestare un potere illegittimo non si può rinchiudere in eterno, come il vento non può essere raccolto tutto dentro una scatola di plastica. L’attuale dittatura del capitale tecnologico e scientifico non può alla lunga cancellare il conflitto capitale-lavoro e mantenere la sua antitesi. Vale a dire, per costoro: le lavoratrici e i lavoratori del nostro tempo, figli della rivoluzione digitale e scientifica, non devono organizzarsi come soggetto libero e autonomo.
Questo è il loro incubo più grande, questo è il loro punto debole.
Roberto Catracchia
Marco Piccinelli
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