A Roma le ferite della seconda guerra mondiale, alla fine degli anni quaranta, si possono vedere agli angoli di tutte le strade. Dal centro crocevia di destini, fino alle periferie nelle quali si concentrano i pezzi di umanità che covano i dolori più profondi, gli abitanti della Città Eterna cercano disperatamente di ripartire aggrappandosi a brandelli di normalità. Tra di essi, il calcio è uno dei riti che ha saputo rimettersi in moto più in fretta. e la rivalità tra Lazio e Roma è tornata a dividere, ma in un certo senso anche unire, una città dalle mille anime.
Nel 1949 i soldi però scarseggiano, e non poco. A passarsela peggio in città è la Roma, che dal momento della sua fondazione aveva vissuto un crescendo che aveva portato allo scudetto del 1942. L’essere però il frutto di più anime calcistiche nato dalla fusione del 1927, ha portato il club ad una dispersione d’energie che si fa sentire soprattutto a livello economico. E’ l’anno della transizione tra il presidente dell’immediato dopoguerra, Pietro Baldassarre, e Pier Carlo Restagno, che resterà in carica tre anni conoscendo l’onta dell’unica retrocessione in Serie B, ma anche il riscatto dell’immediata risalita. Ad ogni modo per tirare su una squadra in grado di affrontare il campionato 1949/50 occorre fare di necessità virtù, e l’idea geniale per la Roma arriva da Cinecittà, ed anche per i tempi non è di certo convenzionale.
Nel popolare quartiere, casa della mecca del cinema italiano, infatti, tra i prati sterminati dell’epoca sono anche siti momentaneamente molti campi che ospitano profughi di guerra. E’ proprio lì che la Roma scova Aleksandar Arangelovic, all’epoca ventisettenne (anche se alcune note biografiche suggeriscono che poteva in realtà avere due anni in più) jugoslavo apolide con una passione per il calcio sfiorita a causa delle miserie della guerra. Finito in fuga in povertà a Roma, Arangelovic era stato in realtà un calciatore di professione. Aveva giocato col Padova ed anche col Milan, quando i tornei ufficiali erano stati però già stati sospesi, e persino, si venne poi a sapere, un provino con la Lazio che non era però riuscita a superare dei problemi legati al suo tesseramento. Arruolato nella squadra al minimo del salario, in attesa di riprendere un’adeguata forma fisica, Arangelovic divenne in men che non si dica un idolo della tifoseria giallorossa, tanto da diventare un vero personaggio ospitato anche da artisti come Mario Riva e la compagnia Dapporto durante spezzoni trasmessi nei cinegiornali.
La sua specialità era la “bomba“, ovvero il tiro micidiale che sapeva scoccare anche da fermo. Un vero e proprio tratto distintivo che ne faceva anche un mago delle punizioni. In quell’anno la Roma si guadagnò il soprannome di “ammazzasquadroni“, perché pur lasciando per strada punti contro molte squadre modeste, riusciva a collezionare scalpi di formazioni in lotta per il titolo. Arangelovic era l’arma segreta della squadra, capace di far ammattire il fuoriclasse svedese Gren in un Roma-Milan d’altri tempi. Concluse il campionato con l’eccellente bottino di undici reti, e con quattro doppiette, siglate all’Atalanta, alla Lucchese, al Venezia ed al Palermo.
A fine partita, dopo aver compiuto prodezze nella massima serie, se ne tornava a Cinecittà, negli alloggi per i rifugiati. Un simbolo della precarietà dell’epoca, ma anche della voglia di riscatto che pervadeva Roma e tutta l’Italia. “Ce pensa l’Arcangelo“, cantilenavano allo stadio i tifosi giallorossi riadattando il suo nome, riguardo allo slavo dallo sguardo misterioso che in quella stagione tenne a galla la squadra, salva alla fine per due punti, con i suoi gol. E la Roma aiutò a sua volta Arangelovic a rimettersi in pista: restò a giocare in Italia, al Novara, e poi riprese a girare il mondo, prima al Racing di Parigi e poi all’Atletico Madrid, prima di intraprendere, da vero pioniere, la carriera di allenatore in Australia.
Fabio Belli
(Tratto dal suo blog “Storie fuorigioco“)
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