Riceviamo con preghiera di pubblicazione dalla sezione del PCI del VI municipio
100 Anni del PCI, la fine di una comunità e la sua inevitabile ricostruzione.
Nei quartieri periferici di Roma, i manifesti del Nuovo PCI mi riempivano di speranza, anche se le elezioni del 1987 segnavano un’arretramento, con il 26% dei voti circa, alimentando un pessimismo in famiglia che non comprendevo, non avendo le basi per conoscere la grandiosa storia che aveva scritto quel partito.
Per me il PCI era il mio partito, da subito. Già da bambino lo scelsi, per i colori, la bandiera era giallorossa, generando le risa compiaciute dei miei genitori. Era il partito della mia famiglia, dai racconti quasi mitologici che ho sentito mille volte. Dalla dittatura fascista, con i racconti della distribuzione illegale dell’Unità, che mia nonna nascondeva da bambina sotto la canottiera, a suo padre, fruttivendolo che non sopportava le angherie dei fascisti, quando ne mandò due in ospedale e dovette rifugiarsi a dormire su un’albero per un mese. Poi i racconti dei comizi di Togliatti, dove il carretto trainato dal cavallo si riempiva di tutta la famiglia che dal Quarticciolo si dirigeva in direzione San Giovanni, oppure i funerali di Berlinguer, quando vidi una lacrima solcare il viso di mio nonno. Racconti di una comunità, racconti della storia della mia famiglia. La storia di una qualsiasi famiglia comunista che ha vissuto i percorsi di questo paese.
Nel 1989 all’età di 13 anni i carri armati riempivano le piazze della Romania. Ceausescu in un discorso alla nazione, chiedeva di restare a casa perché avrebbero trovato i carri armati.
Aveva ragione, dissi a mio padre, che rispose con un laconico “eh… la cosa è un po’ più complessa…”
Non c’era voglia di parlare di quei fatti, mentre intorno a me non si faceva altro che parlare della caduta del comunismo. Di quanto il mondo sarebbe migliorato con quel crollo. Intorno a me si manifestava la piena convinzione che il comunismo era uscito sconfitto dalla storia. Discussioni su cosa avrebbe dovuto fare il partito, su come reagire a tutto quello che accadeva, su come Natta prima e Occhetto poi avrebbero dovuto impegnare il partito nella difesa dei nostri valori. I miei 15 anni scandirono l’arrivo del PDS, preceduto dalla svolta della Bolognina e da un faticoso periodo nel quale aleggiava un’enorme malumore, nei discorsi dei grandi, che non capivo.
Nel 1992, tutta questa storia mi portò ad aderire al PDS, per il tramite della Sinistra Giovanile. In quegli anni il partito aveva cambiato nome, ma ci sentivamo sempre comunisti, in fondo il sentire comune era quello di dover mediare, di cambiare il paese governandolo finalmente per dare una speranza di cambiamento alle classi lavoratrici. Il nostro essere comunisti non veniva messo in dubbio dal cambio del simbolo e dalla svolta di Occhetto, pensavamo di far parte ancora di quella grande organizzazione. Man mano tutto invece cambiò, l’ossessione del governo, insieme al maggioritario e della sua infima logica del votare il meno peggio, insieme alla sconfitta del 1994, ci catapultò in un partito che nella forma e già meno nella sostanza si credeva comunista a non esserlo più. Ricordo lo stupore di noi militanti quando il deputato di zona, Massimo Pompili ci venne a dire che si le sezioni erano importanti, ma la politica oramai si doveva fare in TV. Venimmo svegliati con una secchiata d’acqua gelata in piena faccia. Iniziò lì, la vera presa di coscienza del grandissimo errore che avevamo commesso nel 1991.
Fu la fine di un’epoca, fatta di organizzazione, di passione e di impegno. Lasciai quel partito qualche anno dopo, perché tradì le mie aspettative e quelle di molti altri compagni. Capii che sarebbe diventato quello che è oggi, un partito che ha scavalcato persino il campo della socialdemocrazia, un partito leggero che nulla aveva della storia gloriosa del PCI, anzi il tradimento di quei valori è ormai lampante.
Nel 1991 si gettarono le basi di quel tradimento, ingannando i compagni e spostando un partito di comunisti, certo nella visione italiana del termine, ad essere un partito leggero, all’americana com’è oggi, in preda al primo Renzi di turno.
Oggi il mio, il nostro PCI ricorre il centesimo anniversario della fondazione, ed a cento anni dalla scissione di Livorno, e a 30 dalla fine del PCI resta inevitabile ed impellente l’esigenza di ricostruire quella prassi politica, di tornare a quei bei ideali di giustizia e di uguaglianza che il più grande Partito Comunista d’Occidente poneva sul tavolo della politica. Il ricordo da solo oggi non basta più, per quello basterebbe un’Associazione Culturale. Oggi dobbiamo ricostruire un modo di agire, un partito di massa e strutturato che faccia politica con le stesse modalità che hanno fatto grande il PCI: dalla fontanella nel quartiere ai problemi di politica internazionale, con la sua instancabile organizzazione. L’impresa è difficile, lunga e complessa ma è il solo modo per garantire a questo paese la giustizia sociale, la difesa dei lavoratori e una via italiana al socialismo. E’ il solo modo per combattere un modo di fare politica che è solo personalismo e interesse di parte.
Antonio Gramsci, fondatore del PCI diceva che “Anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio.”
L’inizio è ora, riprendiamoci la nostra storia.
Eros Mattioli (segretario PCI VI municipio)
hai centrato in pieno la storia e le delusioni di tanti compagni, bravo, tu sei giovane ma chi in quegli anni era un militante si trovò con la sensazione di aver sbagliato tutto, molti si ritirarono nel privato, molti ancora oggi seguono ingenuamente quelli che hanno la spudoratezza di festeggiare i cento anni del PCI avendolo affondato, o si glorificano di aver fatto parte di quella storia.
eros è un grande!