Intervista a Giorgio De Finis direttore del Museo delle Periferie di Serena Damiani
“L’arte può (anzi ha il compito di) cancellare la lavagna. La sua forza sta nel non accettare le cose come sono e nel farci vedere che potrebbero essere altrimenti”
Musei chiusi, teatri chiusi, centri culturali chiusi. Sono tanti gli articoli, i post, i commenti che raccontano quanto è grande il vuoto che lasciano queste porte sbarrate.
L’arte non è un prolungato “ohhhhh! Che bello!” L’arte è guardare da un altro punto di vista, pensare seguendo strade nuove, condividere in modo diverso.
Un’esperienza così intensa da farti venire in mente mille domande. L’arte può cambiare il mondo? L’arte vive nei musei o nelle strade? L’arte può fare la rivoluzione?
Cerco risposte ai miei dubbi. E vado in periferia. Torno a parlare di arte e musei con Giorgio De Finis, direttore del Museo delle Periferie, che voglio subito ringraziare per il tempo che ci dedica.
Direttore del MAAM, del Macro Asilo, ora del Museo delle Periferie. Cosa vuol dire “dirigere” un museo d’arte contemporanea?
La domanda più corretta dovrebbe essere cosa vuol dire “inventare” un museo di arte contemporanea. Perché questo faccio con i miei “dispositivi” museali, che sono progetti artistici prima che curatoriali. Qualcuno (sai che la critica e la storia dell’arte hanno bisogno di classificare, ordinare, separare…) ha definito i miei dei musei-fai-da-te, qualcun altro li ha collocati tra gli esempi di critica istituzionale di ultima generazione. A me interessa giocare con questa importante e prestigiosa istituzione (il fiore all’occhiello delle città globali in competizione), smontandola e rimontandola, creando dei cortocircuiti a scala urbana (come nel caso del MAAM), o forzandone l’inclusività per far apparire ciò che si vuole invece nascondere: la massa degli artisti e delle “forme di vita” che operano nonostante le palizzate alzate dal sistema mercantile dell’arte.
Tutto ha un costo, un prezzo. A metro quadro, a chilo, a litro, a carato. Se qualcosa ha valore è “normale” che costi tanto. Se costa tanto, vuol dire che è importante. Semplice, lineare, consumistico. Ci basta leggere “il cartellino” per sapere cosa “pensare”. Anche per l’arte funziona lo stesso principio?
Beh, direi proprio di sì, anche se è impossibile ridurre l’arte al suo valore perché essa appartiene per sua natura ad una dimensione dell’umano che si oppone a quella dell’homo oeconomicus; l’arte è dispendio, un fare non funzionale e disinteressato (come anche la scienza, da non confondere con la tecnica), in un certo senso è “inutile”. Ma se da una parte l’arte, come il gioco, la festa, il dono, il sacro, stanno sul fronte opposto dell’operare produttivo e della razionalità strumentale, dall’altra è anche vero quello che dice Gekko, il protagonista di Wall Street, niente come l’arte può celebrare il denaro e la finanza. Forse questi due aspetti non sono poi così in contraddizione perché c’è indubitabilmente qualcosa di “magico” nella maniera odierna (post-fordista) di produrre economia che possiamo ben ritrovare in quel potere di trasmutazione dell’opera d’arte che ha origine col ready made duchampiano, che se voleva essere dissacratorio e dadaista nei confronti della sacralità classica dell’artefatto artistico, conteneva anche alla massima potenza il suo effetto contrario, l’alchimia di cambiare l’essenza (e dunque il valore) di un oggetto, deturpandolo, rinominandolo, ricollocandolo (dalla toilette alla sala del museo).
L’artista, dopo Duchamp, è l’unico, insieme forse ai maghi della finanza, in grado di moltiplicare i pani e i pesci, trasformare qualunque cosa in oro, proprio come re Mida e i possessori del segreto della pietra filosofale. Molti oggi credono che arte e sistema dell’arte coincidano. Sicuramente non è stato sempre così. A meno di non leggere come un espediente semio-tecnico anche le pitture rupestri delle grotte di Lascaux. Ma non possiamo dimenticare che il primo artista moderno, Giotto, dipinse la cappella degli Scrovegni al soldo di una nota famiglia di strozzini, e pare che egli stesso praticasse il prestito di denaro ad usura.
Il lavoro di molti artisti contemporanei oggi ha per oggetto proprio il rapporto, spesso ambiguo (ma non sempre, se pensiamo a Salvador Dalì che si guadagna il soprannome di Avida Dollars o ad un artista come Jeff Koons, per il quale l’arte, in quanto attività fondamentalmente prezzolata, finisce per essere inevitabilmente “puttana”) tra arte e denaro. Basti qui ricordare il doppio salto mortale di Maurizio Cattelan che, in nome del potere raggiunto dal costo dei suoi manufatti, si permettere di regalare a Piazza Affari il suo monumentale dito medio alzato!
In Italia molte città sono per definizione “musei a cielo aperto”. Roma è una di queste. Ma noi davvero “abitiamo” l’arte? Davvero l’arte è parte della nostra città e della nostra quotidianità?
Direi che questo è indubitabile. Anche se pensare alla città come ad un “museo” ci porta a considerarla come qualcosa che possiamo visitare, ma non possiamo “toccare”. Ricordo che col nuovo regolamento urbano varato da Roma Capitale non ci si può neanche sedere sugli scalini di Trinità dei Monti… per una questione di “decoro”! Io penso che sono i musei che dovrebbero assomigliare alle città, e non il contrario.
Sia il MAAM sia il Macro Asilo mi hanno colpito in quanto “spazi aperti”. Musei da visitare, ma soprattutto da “abitare”. Dove camminare, fermarsi, guardare, parlare, ascoltare. Musei come piazze, strade, scalinate. Luoghi di incontro.
Il MAAM non è solo abitabile, ma è abitato! Da duecento persone circa, di cui più di 50 minori. E anche Macro Asilo direi che lo è stato, se pensiamo che in quindici mesi ha ospitato 330 mila visitatori, e un palinsesto sempre diverso, con 200 lectio magistralis, 600 tra incontri e convegni, oltre 500 performance, 250 studi d’artista, 61 ambienti (vale a dire progetti artistici relazionali e partecipati), 200 tra installazioni temporanee e opere live, a cui si devono aggiungere proiezioni, laboratori, presentazioni di libri, concerti… e gli esercizi del mattino. Era un dispositivo d’incontro a scala urbana, che ognuno poteva vivere gratuitamente dieci ore al giorno. Per il tempo restante lo abitavo io, che nel museo ci abitavo (perché era una esperienza totale, che volevo vivere anche ad occhi chiusi).
L’arte può fare la rivoluzione?
L’arte può (anzi ha il compito di) cancellare la lavagna. Nasce dall’esperienza del reale, ma non si limita a fotografarlo, lo trasforma. La sua forza sta nel non accettare le cose come sono e nel farci vedere che potrebbero essere altrimenti. In questo gli artisti non sono dissimili dagli attivisti.
Io scrivo e “faccio teatro”. Su autori e attori ho sentito raccontare storie ed aneddoti fantasiosi. Ma soprattutto ho scoperto tante persone che lavorano in questo ambiente, senza “amare” autori e attori. Tu che rapporto hai con gli artisti?
Sono un antropologo che ha scelto di percorrere la strada dell’arte. Nutro grande curiosità e ammirazione per gli artisti, che sono preziosissime “anomalie” che ci aiutano a combattere l’omologazione e il pensiero unico. Ma la loro “singolarità deve poter arrivare alla gente. Gli artisti devono riprendere a parlare e uscire il più possibile dagli studi, che sono luoghi importanti (come è importante la solitudine nel processo della creazione), ma rischiano di essere delle trappole se li si usa per aspettare il gallerista e il curatore di turno.
Rileggo l’intervista. Ho trovato risposte ma anche nuove domande. Proprio quello di cui abbiamo bisogno: certezze e dubbi. Certezze per segnare le tappe di un percorso, dubbi per continuare a camminare.
L’arte può fare la rivoluzione.
Serena Damiani
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